Una società viene definita “società di fatto” quando è costituita in base ad un’intesa verbale o a comportamenti concludenti, dai quali si possa desumere la volontà delle parti di costituire un rapporto sociale.
Ovviamente deve essere presente una comune intenzione dei soggetti coinvolti a collaborare per perseguire uno scopo di lucro, attraverso lo svolgimento di attività economica e la disponibilità di risorse finanziarie, materiali o immateriali che costituiscono una sorta di fondo comune.
La società di fatto può anche essere occulta, allorché esiste un soggetto che agisce come imprenditore di altri soggetti che non appaiono formalmente essere soci (in tal modo non viene rivelata all’esterno l’esistenza della società)
Quando a partecipare la società di fatto sia, tra gli altri soggetti, anche una società, ci troviamo di fronte alla figura della supersocietà di fatto.
Per il fallimento della supersocietà di fatto serve un comune intento sociale tra tutti i soci.
Questa l’indicazione che arriva dalla Cassazione con la sentenza n. 7903 della Prima sezione civile. La pronuncia ha confermato così la revoca del fallimento, disposta dalla Corte d’Appello, di una società di fatto costituita da 4 srl (una dichiarata fallita) e da alcuni soci in proprio.
Per i giudici di secondo grado non era possibile individuare l’esistenza della società di fatto, tenuto conto di una serie di elementi. Innanzitutto la mancanza del requisito oggettivo rappresentato dal fondo comune; il fatto che le condotte di distrazione poste in essere da uno dei “soci” erano piuttosto indirizzate a sottrarre liquidità ai creditori della società unipersonale piuttosto che a creare provviste per il fondo comune stesso; l’assenza di elemento soggettivo, visto che una delle srl unipersonali dichiarata fallita non aveva svolto attività imprenditoriale insieme agli altri soggetti ritenuti soci della società di fatto.
Contro il provvedimento era stato proposto ricorso da parte dei curatori, sostenendo che la Corte d’appello aveva escluso l’esistenza della società di fatto o supersocietà sulla base di criteri solo formali, valorizzando, tra l’altro, il fatto che non tutti i pretesi soci avessero svolto contestualmente la medesima attività.
La Cassazione puntualizza innanzitutto che la norma della Legge fallimentare relativa al fallimento della società con soci a responsabilità illimitata deve essere applicata non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, emerge che l’impresa è in realtà riferibile a una società di fatto tra il fallito e uno dei soci occulti, ma anche, per effetto di un’interpretazione estensiva, quando il socio già fallito è una società, anche di capitali, che partecipa, con altre società o persone fisiche a una società di persone configurando in questo modo una supersocietà di fatto.
Tuttavia, osserva ancora la Cassazione, questa linea che allarga la portata applicativa della norma e del “contagio” si giustifica solo se è possibile dimostrare in maniera rigorosa «il comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme e non contrario all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca +una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto». E la Corte d’Appello questa intenzione comune l’ha appunto esclusa.
Semmai, strada alternativa al riconoscimento della supersocietà, il curatore può agire perché venga ammessa l’esistenza di una holding nei confronti della quale il curatore stesso può agire in responsabilità. La quale holding potrà essere dichiarata fallita autonomamente, nel caso sia accertata l’insolvenza a richiesta di uno dei soggetti legittimati.