Basta la titolarità di un conto corrente a rendere il correntista effettivo proprietario della provvista bancaria?
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto, ma tale presunzione dà luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
Dottrina e giurisprudenza ritengono che il contratto di conto corrente a firme e disponibilità disgiunte sia idoneo ad essere inquadrato come donazione indiretta quando sul conto confluiscano esclusivamente somme di proprietà di uno solo dei correntisti.
Finché, quindi, si discuta della titolarità della quota delle somme versate in conto coperte da tale presunzione (ipotizzando due correntisti, si tratta della metà del saldo creditorio), sarà colui il cui denaro di titolarità esclusiva è confluito nel conto a dover provare di non aver inteso beneficiare il cointestatario: in assenza di tale prova, a questi spetta il diritto ad incassare la propria quota. In pratica, ciò che concretamente deve essere provato in casi come questi non è la presenza, bensì l’assenza dell’animus donandi e la relativa prova non può incombere che sul correntista il quale, avendo versato danaro personale, assuma di esserne proprietario per l’intero.