Una recentissima sentenza della Cassazione, offre lo spunto per un brevissimo excursus sull’istituto dell’addebito in ambito di separazione.
Nei casi di separazione giudiziale in cui l’intollerabilità della convivenza tra i due coniugi sia determinata da comportamenti di uno dei due coniugi che violano i doveri del matrimonio, un coniuge può richiedere al Giudice di addebitare all’altro la separazione.
L’addebito della separazione costituisce una sorta di sanzione contro la violazione dei doveri familiari e coniugali da parte del marito o della moglie.
La sentenza di separazione con addebito al marito o alla moglie presenta notevoli differenze con la “separazione per colpa” che è stata poi abolita con la riforma del diritto di famiglia del 1975.
Il Giudice, nel valutare la richiesta di addebito, non si baserà su una sola inosservanza dei doveri coniugale (anche se grave e ripetuta nel tempo), ma dovrà verificare la sussistenza di un nesso di causalità tra il comportamento tenuto dal coniuge e l’intollerabilità da parte dell’altro a continuare la convivenza. Per fare questo il Giudice dovrà analizzare e valutare in modo molto attento il contesto familiare per valutare se si continuino a verificare atti tali da rendere intollerabile la convivenza.
Il coniuge a cui viene addebitata la separazione perde ogni diritto al mantenimento e gli vengono attenuati i diritti successori. In tema di eredità, infatti, il coniuge cui è stata addebitata la separazione ha diritto solo a un assegno vitalizio se quando viene aperto il testamento godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.
Il coniuge a cui non è stata addebitata la separazione, invece, ha gli stessi diritti di successione del coniuge non separato.
La Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, Sez. I Civ., sentenza n. 7132 del 9.4.2015) ha cassato una sentenza della Corte d’Appello che aveva escluso l’addebitabilità della separazione in capo ad un marito, riconosciuta in primo grado.
In specie, la domanda di addebito si fondava su due diversi aspetti: il primo relativo all’infertilità del marito e, in particolare, alla sua unilaterale decisione, non comunicata alla moglie, di non procedere oltre nel ciclo di procreazione assistita in precedenza deciso in comune, nonostante la moglie si fosse sottoposta a terapie invasive; il secondo relativo alla dipendenza dall’alcool della quale il coniuge non aveva messo al corrente la moglie e dalla quale non si era liberato nonostante la solidarietà e l’assistenza della moglie una volta scopertolo.
La Corte d’Appello aveva ritenuto che non fosse stata fornita la prova del nesso causale tra il comportamento volontario ascritto al marito e l’irreversibile crisi coniugale, dal momento che la condotta relativa all’interruzione del progetto di fecondazione assistita risaliva a quattro anni prima del ricorso per separazione.
La Corte di Cassazione ha ritenuto, invece, che i profili dell’infertilità e dell’interruzione del progetto procreativo assistito ed il profilo dell’etilismo, compongano entrambi un quadro di violazione del tutto unilaterale della fiducia nella lealtà dell’altro coniuge che caratterizza la comunione spirituale e materiale posta a base dell’affectio coniugalis.
Afferma la Corte che “la violazione del dovere di lealtà ha caratterizzato la condotta continuativa e le scelte unilaterali e non condivise del G. (n.d.r. il marito), così da minare il nucleo imprescindibile di fiducia reciproca che deve caratterizzare il vincolo coniugale”, giustificando la pronuncia di addebito nei confronti del marito.